Dire meno tasse è di centrosinistra

Dire meno tasse è di centrosinistra

Articolo di Enrico, pubblicato su «Europa» di sabato 24 aprile.

Ridurre le tasse su chi lavora e su chi produce è una riforma di centrosinistra. Spostare a tal fine gli equilibri dei carichi fiscali e intervenire, se necessario, sulla spesa pubblica improduttiva sono riforme di centrosinistra. È questa la mia reazione all’articolo di Carlo De Benedetti pubblicato giovedì scorso su Il Foglio.
Di quell’intervento il punto chiave mi sembra, in primo luogo, il no alla passività, il rifiuto di ogni strategia attendista accompagnato dalla consapevolezza che il paese non può più permettersi di essere solo spettatore della crisi. Deve, al contrario, farsi attore di una strategia di ripresa produttiva, senza più nascondersi dietro falsi alibi o incomprensibili dilazioni come ha fatto il governo sin dall’inizio della recessione. Due filosofie diverse si sono opposte e annullate reciprocamente nell’ultimo anno e mezzo. Da un lato, i paladini della tenuta dei conti pubblici a tutti i costi. Dall’altro, i sostenitori di interventi di stimolo all’economia.
L’effetto di questo scontro tra due visioni opposte è stata la sterilizzazione della nostra politica economica. Con il risultato che oggi l’Italia va male in termini assoluti, tiene sui conti pubblici in termini relativi rispetto al tracollo che ha investito imprevedibilmente altre economie che pure parevano in buona salute, ma non ha una sua “missione-crescita”.
Nessuna idea forte su come risollevare il paese dopo la tempesta. Nessuna programmazione selettiva sugli interventi da mettere in campo per far ripartire l’economia. Al massimo alcune misure spot di facile presa mediatica, come il decreto incentivi lanciato la settimana precedente le regionali che, generando aspettative eccessive, ha finito col bloccare i consumi, rivelandosi inutile e controproducente.
Altrove si discute di nuovi paradigmi di sviluppo in risposta a una crisi epocale.
Da noi il dibattito sulle riforme s’incaglia sistematicamente sul riequilibrio istituzionale della macchina dello stato, indicato da molti come il presupposto imprescindibile di qualsivoglia disegno riformista. Secondo noi occorre, invece, richiamare la centralità delle riforme economiche, a cominciare da quella del fisco.
Proprio intorno alla definizione di una riforma del fisco a favore di chi lavora e di chi produce prenderà avvio il “Progetto per l’Italia”, al quale il Pd lavorerà da adesso al 2011 e che si avvarrà del coinvolgimento dei circoli, dei forum e dei gruppi parlamentari. Prossima tappa il 21 e 22 maggio, quando ci confronteremo nell’Assemblea nazionale sulle prime idee e sul percorso da intraprendere per arrivare al 2011. Sullo sfondo i tre record negativi che l’Italia detiene nel confronto con gli altri paesi avanzati: abbiamo la più elevata tassazione sul lavoro e sull’impresa, il più alto livello di evasione ed elusione fiscale, la maggiore “generosità” sulle rendite finanziarie. Ne emerge il ritratto di una società che semplicemente soffoca chi lavora e intraprende e premia chi cerca scorciatoie e chi vive sui privilegi.
In questo quadro noi riteniamo che sia necessario disegnare una riforma del fisco basata sulla “parabola dei talenti”.
Far circolare i talenti produce valore, per chi ne è portatore e per l’intera comunità.
Nasconderli sotto la sabbia genera, all’inverso, distruzione di valore. È una questione etica, certo, di equità e rispetto delle regole. Ma è anche una questione economica: di creazione e distruzione di valore, appunto. Per questo premiare e sostenere fiscalmente chi “crea” sviluppo significa operare nell’interesse della comunità.
Significa non avere paura di toccare le tante sacche di privilegio che tolgono ossigeno all’economia e futuro alla società.
Tutto ciò, però, costa fatica e richiede coraggio. Non è un caso che Berlusconi, a dispetto dei tanti annunci reiterati a intervalli più o meno regolari, non sia mai riuscito a riformare davvero il fisco. Sa bene che per farlo occorrerebbe scontentare qualcuno e lui non vuole e non può permetterselo, non fa parte della natura del suo potere.
Perché la sua filosofia è rivoluzionaria a parole, ma conservatrice nei fatti. Perché agire, come serve, sulla lotta all’evasione fiscale o correggere l’insostenibile dualismo del mercato del lavoro – sia tra Nord e Sud, sia tra “ipergarantiti” e “vulnerabili” – pregiudicherebbe l’essenza stessa del consenso organizzato e conservatore di cui è alfiere e beneficiario. E poco importa se a fare le spese delle mancate riforme sia il paese tutto. Noi invece tifiamo per l’Italia che si rimbocca le maniche e che vuole uscire dalla crisi. Quest’Italia ha bisogno di riforme.