Letta: “Ma se l’Italia continua così rischia un pericoloso isolamento”

Letta: “Ma se l’Italia continua così rischia un pericoloso isolamento”

Intervista di Fabio Martini a Enrico letta per La Stampa del 3 febbraio 2016

OWNTT36R-kanB-U10603381732822igF-1024x576@LaStampa.itNel suo studio a Sciences Po, l’Istituto di studi politici, una delle Grandes Ecoles di Parigi, Enrico Letta scruta la carrellata delle notizie del giorno e si ferma sul documento di apertura alla Gran Bretagna del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. E commenta: «Col prossimo referendum, perdere la Gran Bretagna sarebbe, per davvero e non retoricamente, una spinta verso la dissoluzione dell’Europa. Immaginiamo la Gran Bretagna che lascia l’Unione vista con gli occhi degli asiatici o dei brasiliani: dopo tanti allargamenti sarebbero autorizzati a pensare, e non solo loro, ad un fatale arretramento. Dobbiamo saper cogliere l’occasione del referendum inglese per riformare l’Europa: così non va. Ma non la si riforma con l’anti-europeismo facile».

Oramai nell’opinione pubblica cominciano ad insinuarsi domande di fondo, semplici: questa Europa serve all’Italia? Quale Europa serve all’Italia?  «All’Italia serve stare in Europa anzitutto perché la geografia e la storia ci hanno immerso in un mare instabile. Per decenni abbiamo appaltato la politica di sicurezza agli americani e dunque se non stiamo dentro una rete di alleanze, de ntro un sistema di difesa e di sicurezza, rischiamo di affondare. All’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, perché soluzioni nazionali non esistono. Non dobbiamo assolutamente staccarci, isolarci».

Il «Financial Times» torna ad evocare per l’Italia un destino greco: drammatizzazioni senza fondamento?  «Quando leggo cose come quelle che scrive il “Financial Times” mi preoccupo. Questo tipo di politica italiana verso l’Europa, molto aggressiva e incattivita, finisce per isolarci e rischia di farci diventare una seconda Grecia, piuttosto che il centro dell’Europa. Ma il nostro destino è sempre stato e deve restare lo stesso: Francia e Germania. Sì, devo esprimere una preoccupazione: ci stiamo isolando in modo preoccupante».

In questi giorni si è chiarito una volta per tutte il vero nervo scoperto di Berlino e Bruxelles: i conti italiani non tornano e metterebbero di nuovo a rischio il resto dell’Unione. Ma non è legittima la via italiana: meno tasse, un po’ di deficit per alimentare la domanda?  «È evidente che non è facile chiedere flessibilità con una legge di stabilità in deficit e priva di spending review. Se la flessibilità diventa uno strumento per fare deficit, ci sono problemi. Il governo sta alzando la voce per coprire questa legge di Stabilità».

Ora è facile negarlo, ma nel periodo nel quale ha governato il Paese le è venuta la tentazione di una scorciatoia, magari nel tentativo di far slittare uno dei termini di «rientro»?  «Nel breve periodo nel quale sono stato presidente del Consiglio la mia preoccupazione era quella di far uscire l’Italia dalla procedura di infrazione e in quella fase non era possibile immaginare altro. L’obiettivo lo abbiamo raggiunto, sono soddisfatto: è bene ricordarsi dove eravamo. Per evitare di tornarci».

La politica europea sull’immigrazione è entrata in una crisi inimmaginabile ancora qualche mese fa: un’Europa così non serve all’Italia…  «All’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, un’Europa nella quale torni la parola solidarietà, parola che fino a qualche tempo era considerata impronunciabile perché erano altri i termini che contavano, a cominciare da competitività. Solidarietà è una parola che oggi pronuncia la Germania, dopo la decisione di accogliere un milione di rifugiati. La pronuncia l’Italia che ha bisogno di solidarietà nella gestione dei flussi migratori».

Italia che sembra al centro di un ricatto: se c’è una seconda frontiera dietro le Alpi, noi non siamo dentro una tenaglia?  «Per noi il più grande pericolo è una mini-Schengen che escluda i mediterranei: un pericolo mortale. Vorrebbe dire che l’Italia esce dal cuore dell’Europa. E il cuore dell’Europa è passare le frontiere senza passaporto. Ma noi dobbiamo essere paladini di una vera battaglia, che non può essere quella per i 281 milioni sui fondi per i rifugiati. Dobbiamo batterci per realizzare un corpo di polizia frontaliero: cinquemila uomini, capaci di gestire, e bene, la frontiera esterna dell’Unione. Un vero corpo europeo. Con agenti italiani all’aeroporto di Berlino e tedeschi a quello di Atene. Non sarebbe una spesa in più ma una spesa in meno rispetto alla prospettiva di nuove frontiere interne. Se non si fa così, muore Schengen. Si fa una mini-Schengen che ci escluderà, perché la geografia ci penalizza».

Ma complessivamente non resta un forte pregiudizio anti-italiano a Bruxelles, retaggio di vecchie politiche e di vecchie leadership?  «Se il debito resta enorme, quelle sono cifre, non pregiudizi. Dell’Italia ci si può fidare ma in un tempo nel quale la comunicazione pesa, i giornali si leggono e si traducono, prendere a male parole o fare la politica del capro espiatorio con Bruxelles non funziona. Lo so che far polemica è un gioco per prendere voti in Italia. Ma attenzione all’effetto-paradosso: una polemica anti-europea per contendere voti a Grillo e Salvini, finisce per alimentare l’anti-italianismo all’estero e l’anti-europeismo in Italia. Soffiare su quel fuoco lì è un gioco a perdere. Non è con l’anti-europeismo che si cambia l’Europa, che invece va riformata. E non è con il nazionalismo che si salva l’Italia».

Regolamentazioni come il bail in servono all’Italia?  «In questo campo la battaglia italiana, anche nei confronti della Germania, non può essere quella dallo zero virgola col cappello in mano, ma invece quella di completare l’Unione bancaria, che è rimasta a metà, assieme al fondo di garanzia europeo. La strada la sta indicando Draghi: occorre completare l’Unione economica e sociale».